Please, present yourself: TONY WANG
Grazie alla fotografia l'artista di base a New York è riuscito a trovare una via di fuga al caos della grande metropoli. Ci siamo fatti raccontare i suoi interessantissimi progetti.
Ciao, benvenuti in Please, present yourself.
Di cosa tratta questa rubrica? In poche parole ci piace andare alla scoperta di nuovi progetti fotografici e lasciare che siano gli stessi artist* a raccontarsi. Noi pensiamo solo a fare qualche domanda! Facile, no?
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Tony Wang è un fotografo e regista di base a New York City. Da piccolo Tony sì trasferì da Pechino a Rhode Island per inseguire il suo sogno di diventare giocatore di hockey. La sua esperienza americana subì però una virata quando si rese conto che c’era qualcosa che gli mancava, e quel qualcosa era rappresentato dalla fotografia. Negli anni del college Wang cominciò quindi ad esplorare l’arte visuale - avendo come punto di riferimento artistico il padre fotografo - realizzando filmini tra le aule e i corridoi del college che lo resero, per certi versi, una sorta di piccola celebrità.
L’iniziale sofferenza di non essere un artista con un proprio stile ben definito, come ci ha raccontato nella lunga intervista che segue, è andata acquietandosi quando l’artista è finalmente riuscito a perfezionare il proprio stile.
L’arte visuale è così diventata per Wang il mezzo attraverso il quale rielaborare esperienze passate, andare alla ricerca di quiete e bellezza - entrambe nascoste nei dettagli più piccoli - in un contesto metropolitano dominato dal caos, e sperimentare artisticamente con il corpo (il proprio e quello di artisti) e il concetto di movimento. Partendo da questi ingredienti Wang ha quindi dato forma a interessantissime serie fotografiche - Urban Hallucination, Unfinished Epilogue, The Dance of Figural Vestiges - e video multimediali - SEER, FLOW STATE - pubblicati da riviste del calibro di Nowness, Aesthetica e BOOOOOOOM. Abbiamo contattato Tony per farceli raccontare.
Please, present yourself...
Sono Tony Wang, un artista visivo di base a New York che lavora nel campo della fotografia, del cinema e di tutto ciò che è multimediale. Crescendo a Pechino, in Cina, giocavo a hockey sul ghiaccio ogni giorno. Mio padre era il mio fotografo e videografo di riferimento, fotografava i miei giochi e creava video dei momenti importanti. Da giovane sono stato un presentatore televisivo sulla tv nazionale in un programma automobilistico per bambini, e anche li ho avuto modo di stare a contatto con le telecamere. La macchina fotografica è stata sempre presente nella mia infanzia. Inconsciamente fa parte della mia vita, anche se all’inizio stavo principalmente dall'altra parte dell'obiettivo.
Quando avevo 15 anni, mi sono trasferito in un collegio nel Rhode Island, Stati Uniti, per intraprendere la carriera nell'hockey. Tuttavia, senza una macchina fotografica sentivo come se mancasse qualcosa, fino a quando non ne ho presa una. Proprio come mio padre, ho iniziato a fotografare e filmare tutti gli eventi scolastici, da video sportivi a documentari sul preside. Essendo l'unico studente che portava con sé una macchina fotografica, questa è diventata uno strumento per fare amicizia e diventare io stesso uno spettacolo.
Ogni settimana c'era un'assemblea scolastica e io salivo sul palco per presentare il mio nuovo film della settimana. Ricevevo applausi scroscianti che mi facevano sentire al settimo cielo. Mi sono reso conto che non solo stavo guadagnando popolarità grazie ai miei lavori, ma attraverso la mia macchina fotografica stavo anche avvicinando una comunità. Era surreale. Il supporto di tutti è stato determinante nel motivarmi a imparare nuovi trucchi con la fotografia, il cinema e il montaggio. Prima ancora di rendermene conto, ero il responsabile ai media della scuola, e passavo da un mezzo all'altro per realizzare lavori cross-mediali.
Da neo-laureato alla Tisch School of the Arts della New York University con specializzazione in Fotografia e Imaging, ho continuato a sviluppare i miei lavori, non solo a livello tecnico, ma cercando di approfondire il linguaggio visivo. La fotografia e il cinema si intrecciano diventando sbocchi creativi per le mie emozioni. Recentemente ho esplorato le nozioni di tempo, memoria, traumi e guarigioni. Sto anche sperimentando come l'obbiettivo, in movimento e nell'immobilità, possa esplorare questi concetti fragili e subconsci.
Quali sono state e quali sono le tematiche principali dei tuoi lavori?
Le tematiche dei miei lavori sono fluttuanti. L'unica costante è il desiderio di creare ed esprimere le mie emozioni utilizzando immagini e altre forme di sensorialità. Desidero sfidare la comprensione visiva dei linguaggi cinematografici e fotografici utilizzando uno stile di editing testuale e staccato nei miei lavori con immagini in movimento e creare fotografie attraverso una lente personale e tecnologica.
In questo momento sto lavorando al progetto di un libro intitolato How's Your Day? che comprende immagini scattate con iPhone selezionate direttamente dal suo algoritmo. L'obiettivo è domandarsi quanto facciamo affidamento sull'album del nostro smartphone per ricordare e fino a che punto questo distorce e influenza i nostri ricordi.
Come si legge in un tuo statement, le tue fotografie sono principalmente il risultato del modo in cui rielabori esperienze passate. Puoi raccontarci qual è il ruolo della fotografia (e dell'arte) e come definisce e condiziona il tuo “essere”?
L'atto di fotografare è un processo intimo, e le immagini entrano direttamente a far parte della mia esperienza. Quando fotografo sento un senso di serenità e di arrendevolezza allo spazio e al tempo, è come se mi sentissi distante sia dal passato che dal futuro. Mentre mi perdo nei dettagli più piccoli del momento attuale anche la mia percezione dello spazio si offusca. La fotografia diventa allora un'esperienza alternativa per la ricerca di qualcosa di intimo e bello. Non so esattamente cosa cerco quando prendo in mano una macchina fotografica, ma posso dire di perdere la pressione del pensiero cosciente e lascio che il mio corpo reagisca all'ambiente intorno a me. Il processo fotografico è un esercizio performativo. Il mio corpo diventa un veicolo per i sensi mentre perdo il mio "sé" nella complessa rete di suoni, immagini, consistenza e tatto. Sono sorpreso da ciò che ho fotografato mentre ero “perso”.
Quali sono gli aspetti/elementi che alimentano la tua creatività?
Tutto può ispirare la mia creatività. I beats di una nuova canzone, fare commissioni, guardare un film, leggere un libro o semplicemente camminare per strada. Per me è importante creare di continuo ed essere meno duro con me stesso. Una volta iniziato a lavorare su qualcosa, è lo slancio della novità a portare nuove idee stimolanti.
Tra i tuoi progetti ci ha colpito il titolo molto evocativo di uno in particolare: Urban Hallucination. Puoi parlarcene?
Urban Hallucination è il desiderio di trovare pace nella caotica New York. Dopo aver vissuto in città per oltre quattro anni, sono riuscito a superare il trambusto della metropoli. Il rumore monotono dei cantieri, delle ambulanze e della folla si era accumulato al punto di diventare una fonte d’ansia che disturbava il mio umore e la mia capacità di attenzione.
Non avendo un accesso immediato alla natura ho iniziato la serie cercando di usare la fotografia come dispositivo meditativo per trovare la quiete nel caos. Ho notato che provando a concentrarmi, il processo di osservazione faceva sembrare tranquilli i luoghi più rumorosi e affollati. Riesco a consolidare le sensazioni del mio ambiente nelle immagini, separando le persone e il rumore e concentrandomi solo sugli elementi più tranquillizzanti. Come se la città fosse a riposo.
Le foto di Urban Hallucination sono state scattate in diverse zone di New York (dal centro ai quartieri alti), in vari momenti della settimana e in diverse occasioni: dai festival di strada del fine settimana ai viaggi dopo aver fatto la spesa. Guardando le opere si ha la sensazione di un'esperienza allucinatoria, perché la città non è un luogo tranquillizzante. Spostando la mia prospettiva, anche la metropoli potrebbe avere le allucinazioni con me.
In Urban Hallucination la fotografia di strada è piuttosto centrale, anche se poi lo sguardo si riduce ai dettagli. Qual è il rapporto con la metropoli e come definiresti il tuo stile?
Ho praticato molti tipi di fotografia, tra cui quella ritrattistica, documentaria e sportiva. Tuttavia, non credo che fotografare solo le situazioni, i soggetti e tutto ciò che richiama l'attenzione sia attraente. New York non è la città più adatta per l’auto-riflessione e intorno a me ci sono così tanti strani rumori e movimenti. Così sono andato alla ricerca delle azioni e dei soggetti comunemente fotografabili.
Sono stato immediatamente attratto dall'irresistibile aura di New York e dalla sua storia, profondamente radicata alla fotografia documentaria e ritrattistica di fotografi leggendari, da Weegee a Diane Arbus. Ero curioso di sapere cosa avrei potuto fare con una macchina fotografica in mano. Ero tecnicamente in grado di comporre un'inquadratura simile a quella delle foto di Martin Parr? Potevo fotografare i soggetti utilizzando un flash con la stessa audacia di Bruce Gilden? Potevo creare intricati tableau fotografici come Gregory Crewdson in un contesto come quello di New York?
Sono tutte cose che ho sperimentato, ma nessuna di queste mi ha mai fatto pensare “Vedi? Questa è sicuramente opera mia e ne sono orgoglioso”. Ero un artista imitatore senza una direzione, e più andavo avanti ad imitare, per dimostrare di essere anche io un fotografo valido, più la fotografia mi andava a noia. La popolarità dei ritratti pop di top model e la romanticizzazione di New York su Instagram non mi aiutavano a trovare l’originalità, ero arrivato a dare priorità alla popolarità e alla fama creando opere che si adattassero agli algoritmi dei social.
Durante la pandemia, ho soggiornato per tre mesi e mezzo a San Diego, in California, con un’amica d'infanzia e la sua famiglia. Le giornate di sole e le poche persone nel quartiere contrastavano con la New York pre-pandemia. Finalmente ho trovato il tempo per respirare e rallentare. Mi guardavo dentro per riflettere su me stesso e sulla mia arte. Ho mantenuto la routine, facendo una sessione di corsa quotidiana e imparando a cucinare dalla mia amica e dalla sua famiglia.
Le piccole cose della vita sono diventate improvvisamente sempre più importanti: ho iniziato a prestare attenzione alla luce scintillante e alle ombre che danzavano nella mia stanza, alle pieghe delle mie lenzuola e all'apertura dei paesaggi di San Diego. I miei sensi si sono ampliati e ho notato cose che non avrei mai notato stando a New York.
Prendendo in mano la mia macchina fotografica, mi sono reso conto che qualcosa era cambiato: scattavo foto senza un motivo, ma attraverso osservazioni mirate. Ero guidato da un bisogno interno di fotografare, invece che dalla ricerca di approvazione esterna. Durante quei momenti, il mio sguardo si concentrava sui piccoli dettagli trascurati di una casa o su un mattone di cemento sporgente. La selezione di dettagli e di elementi ritagliati rispetto a composizioni più ampie rifletteva la mia profonda attenzione per le piccole cose che sembravano insignificanti.
In Urban Hallucination, l’attenzione ai dettagli è un ripensamento di ciò che voglio innatamente fotografare mettendo a fuoco i miei sensi anche in un ambiente urbano. È anche un richiamo a prestare sempre attenzione ai dettagli, per evitare di perdermi tanta bellezza.
In The Dance of Figural Vestiges l'attenzione si sposta sui corpi e sull'atto della danza. Cosa ti affascina di questi due elementi e cosa intendevi comunicare attraverso questo progetto?
Il mio interesse per la danza e il corpo deriva dalle esperienze vissute a New York negli ultimi quattro anni. Ovunque in città c’è questo continuo movimento (dalle luci tremolanti dei grattacieli ai topi nelle stazioni della metropolitana), quindi le qualità emotive dei movimenti e delle performance per rappresentare sentimenti inesprimibili a parole hanno cominciato a incuriosirmi. Ho avuto anche la fortuna di incontrare artisti di talento e ballerini con cui collaborare e con cui scambiare le rispettive conoscenze.
In The Dance of Figural Vestiges mi sono ispirato alle tracce dei corpi in movimento attraverso l'atto di fotografare. L'accresciuto senso di osservazione ha reso il corpo un veicolo per i miei sensi.
Fotografare e documentare è una performance di movimento. La mia percezione guida il corpo che si muove intuitivamente senza input coscienti. A volte mi sono perso durante l’atto perché la mia attenzione ai dettagli mi ha fatto muovere in modi e luoghi che non ricordo, come se fossi in trance.
L'approccio multi-esposizione di questo progetto in collaborazione con i ballerini consiste nell'interpretare e catturare le tracce dei movimenti senza l'uso di visori e input visivi, esaltando il ruolo del corpo. Invece di dare priorità alle immagini, il corpo e il suo movimento diventano il dispositivo sensoriale principale. L'inversione di ruolo dall'osservazione visiva all'attenzione per il movimento si traduce in una sorta di "estetica accidentale". È il corpo che vede e il risultato dell'immagine è un’ulteriore riflessione.
Ci racconti come hai lavorato tecnicamente alla composizione delle immagini che fanno parte della serie?
Le immagini di questo progetto sono tutte realizzate con la fotocamera, senza l'uso di sovrapposizioni o Photoshop. Le luci stroboscopiche erano posizionate in uno studio vuoto e buio pesto. In alcune occasioni è stato chiesto ai performer di improvvisare i loro passi di danza. Mentre si esibivano ho attivato le luci stroboscopiche in modo casuale durante riprese a lunga esposizione. La magia è che nessuno di noi sapeva come sarebbe stata la foto finale! Potevamo provare diverse cose con i movimenti, ma il risultato sarebbe stato sempre un mistero.
La danza è un elemento centrale anche nelle tue opere video come SEER, KINDRED BODIES e FLOW STATE, dove la fotografia e la videografia si incontrano con la performance artistica. In che direzione si muove la sua arte?
I movimenti sono una parte importante del mio modo di percepire e interagire con il mondo. Abbinando la macchina fotografica a una performance posso esaltare e desaturare le qualità del corpo in movimento per adattarle a una risposta emotiva. Penso che ogni progetto a cui lavoro richieda un linguaggio visivo e medium diversi. La parte più divertente è mescolare e fondere fotografia, immagini in movimento e progetti cartacei per trovare il modo migliore di esprimermi.
Il linguaggio visivo di SEER è il prodotto di una sperimentazione spontanea tra me e il mio amico e artista performativo Demetris. Ci sono voluti due anni e mezzo per realizzare il film, che ha preso forma solo quando ci siamo seduti davanti al materiale e abbiamo iniziato il montaggio. Lavorando a vari progetti visivi e performativi, poi confluiti in SEER, io e Demetris siamo potuti crescere sia come artisti che individui. La realizzazione di questo progetto è un archivio e una curatela della nostra crescita, un diario visivo che registra le nostre esperienze in continua evoluzione.
In sala di montaggio, volevamo mostrare la corrosività dei ricordi quando riemergono in modo intrusivo e come il corpo può contrastarli. Nel progetto il corpo di Demetris è una spugna, che passa tra atti di ricordo e di oblio. Ho scelto di ritrarre il comportamento imprevedibile della memoria utilizzando uno stile di montaggio staccato - montando e rivisitando le nostre collaborazioni dopo le riprese principali. Il montaggio di SEER è una curatela della nostra crescita come artisti, ricongiungendo e ri-contestualizzando i ricordi di come ci sentivamo quando stavamo filmando e rendendoci conto di quanto siamo cambiati da allora.
In FLOW STATE, invece, ho cercato di amplificare il caos continuo che provo vivendo in città (l'opposto di Urban Hallucination). La stazione della metropolitana è il luogo in cui trascorro molto tempo durante i miei spostamenti, ed è anche il luogo in cui c'è più caos e movimento. In altre parole, è l'incarnazione dell'esperienza cittadina. La sera prima delle riprese, ho chiamato la mia amica ballerina Isio e l'ho convinta a venire alla stazione della metropolitana alle 6 del mattino. Non era previsto e avevo solo una macchina fotografica e uno stabilizzatore. Come in un approccio fotografico, ho lasciato che Isio si esibisse e ho posizionato la macchina fotografica intorno a lei. Il modo in cui lavoriamo è uno stato di flusso, poiché le idee vengono generate quando ci esibiamo l'uno con l'altra: io con la macchina fotografica e lei con i suoi movimenti.
Anche il processo di montaggio rispecchia questo metodo. Ho cercato di mettere insieme frammenti di azione, fotogrammi, movimenti di camera e corpi in movimento in modo del tutto fluido per rappresentare un'esperienza di New York che non finisce mai, 24 ore su 24, 7 giorni su 7.